Le barriere alla comunicazione: soluzionare

Continua l'approfondimento dentro quelle modalità comunicative che a causa della loro struttura possono divenire ostacolo nel processo relazionale.
Nel corso delle scorse settimane abbiamo affrontato le prime due lettere dell'acronimo V.I.S.S.I., con la V di Valutare e la I di Indagare.

In questo nuovo articolo è la volta della S di Soluzionare.

Con che cosa ha a che fare questo tipo di atteggiamento? Da dove nasce? 
Partendo dall'assunto per cui l'indole umana è volta alla sopravvivenza della specie, possiamo dire che nessuno si sottrarrebbe mai dall'aiutare un prossimo che sta chiedendo aiuto. A chi non è mai capitato di dare una mano?
Si tratta di una dinamica che viviamo quotidianamente, in entrambi i ruoli. Ciononostante, vi è mai capitato di pensare a quante volte nel dare una mano si tende a sostituire il nostro agire a quello dell'altra persona?

Esempio pratico.

Luca, 11 anni, primo anno di scuole medie. Il suo papà è professore di fisica quantistica all'università. Tiene le sue lezioni tutte le mattine presso l'ateneo, e tutti i giorni torna a casa alle 15.30. Dopo una pausa ed un ora di meritato relax, tutti i pomeriggi, prepara la lezione per la mattina successiva, riuscendo sempre a terminare prima della cena.
Un pomeriggio Luca deve svolgere i compiti di matematica per il giorno dopo. Argomenti nuovi, e come ovvio che sia alle scuole medie, leggermente più difficili rispetto a quelli che faceva fino allo scorso anno scolastico.
"Papà, mi aiuteresti con questi compiti di matematica?"
Il papà accetta di aiutare il figlio, nonostante debba ancora preparare metà della lezione per il giorno seguente e ci si avvii ormai inesorabilmente verso l'ora di cena. Da questo punto in poi si possono sviluppare due situazioni:

A) Il papà, percependo la difficoltà del figlio nel comprendere la logica di quegli esercizi, utilizza pazientemente venti minuti del suo tempo per spiegargli quale sarebbe dovuto essere il procedimento da seguire per riuscire ad elaborare l'esercizio in maniera esaustiva, e rimandando al dopo cena la verifica di quegli stessi esercizi. Il papà subito dopo cena termina velocemente di preparare la sua lezione per il giorno successivo e si reca poi in camera di Luca, notando con piacere che nonostante ci fosse qualche piccolo errore di calcolo, il procedimento era stato finalmente ben compreso dal figlio. 

B) Il papà, percependo la difficoltà del figlio nel comprendere la logica di quegli esercizi, utilizza i successivi venti minuti per aiutare Luca a terminare tutti gli esercizi, affiancandolo nelle operazioni di calcolo e suggerendo i passaggi logici per arrivare al risultato finale. In questo modo il figlio avrà terminato il suo compito entro l'orario di cena, ed il papà subito dopo cena potrà dedicarsi con tutta calma alla preparazione della sua lezione per il giorno dopo.

La domanda è semplice. Quale delle due versioni di questo papà immaginario ha realmente aiutato Luca con i compiti di matematica? 
La risposta converge inevitabilmente ed inesorabilmente verso la versione A: il papà ha messo le sue abilità e le sue competenze a disposizione del figlio, non con lo scopo di dare soluzione al suo problema, ma con l'obiettivo di condurlo a ragionare e dunque a stimolare le sue abilità latenti. Lo ha fatto anche se in quel momento era per lui la modalità meno pratica: ha sottratto venti minuti alla preparazione della sua lezione per l'indomani, ed ha dovuto riprenderla nuovamente dopo cena, allungando dunque i suoi tempi.

Se questa può essere considerata la modalità più giusta, possiamo dire che sia anche quella più comune?
Quante sono le persone disposte a dare una mano autenticamente senza anteporre il proprio bene a quello dell'altro?

Qui si manifesta uno snodo fondamentale. Quando si dà una mano, lo si fa il più delle volte lasciando attivo il nostro "pilota automatico", il cosiddetto pensiero parallelo, che ci ricorda in ordine: l'appuntamento delle 18.00; di comprare il latte al bar sotto casa, che è finito; che domani è il compleanno di tua sorella e non abbiamo ancora preso il regalo. Che domani dobbiamo tenere lezione all'università, è quasi ora di cena e non abbiamo ancora terminato!
Quello che ha fatto il papà nella versione B riportata in precedenza lo abbiamo fatto tutti almeno una volta nella nostra vita. Sotto altre forme. In altri contesti.
Ma nessuno si è mai sottratto al soluzionare il problema della persona che ci ha chiesto aiuto. Probabilmente senza neanche rendersene conto.
Significa che letteralmente l'abbiamo sostituita, senza però stimolarla a trovare le modalità giuste per imparare a risolvere quel problema. Quindi, in quel momento, è come se non l'avessimo aiutata. La nostra si sarà rivelata una presenza vuota. La presenza invece deve essere autentica, consapevole e proattiva per accompagnare il prossimo a cambiare in positivo. A crescere. Ad imparare.

Quando tuo figlia ti chiede una mano a imparare a cucinare.
Quando il tuo amico ti parla di una situazione problematica a lavoro.
Quando i colleghi sono fermi ad un punto di impasse su un nuovo progetto.
Quando accade tutto questo, spegni il pilota automatico.
Non dir loro quello che faresti tu, perché le tue abilità e le tue qualità sono uniche al mondo, inequiparabili a quelle di qualunque altro essere umano, e viceversa.


Impara piuttosto a divenire presente autenticamente. A stare nel problema dell'altro con empatia.
Consapevole di poterlo aiutare ad evolvere divenendo proattivo, andando a solleticare quelle abilità latenti che sino ad oggi non ne hanno voluto sapere di destarsi.
O che forse non ne hanno mai avuto la possibilità di emergere, sovrastate dalle abilità degli altri.


"Dai un pesce ad un uomo e lo sfamerai per un giorno;
insegnagli a pescare, e lo sfamerai per tutta la vita" (Confucio)

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